In che cosa la Pratica Collaborativa è diversa dalla Mediazione Familiare?

Terza parte

Continuiamo a conoscere la PRATICA COLLABORATIVA, una nuova modalità in cui avvocati, psicologi e commercialisti collaborano per accompagnare la coppia a trovare gli accordi di separazione nel rispetto delle esigenze di tutti i componenti della famiglia: mamma-papà e figli.

 

Dopo le presentazioni in:

"La Pratica Collaborativa: una modalità alternativa di risoluzione stragiudiziale delle crisi familiare"

 "In che cosa la Pratica Collaborativa si distingue dalla Trattativa tradizionale",

le avvocatesse Cracco e Fedrigoni spiegano quali sono le differenze rispetto alla Mediazione Familiare.

 

 

Secondo il modello SiMef  “La Mediazione Familiare è un percorso per la riorganizzazione delle relazioni familiari in vista o in seguito alla separazione o al divorzio: in un contesto strutturato il mediatore, come terzo neutrale e con una preparazione specifica, sollecitato dalle parti, nella garanzia del segreto professionale e in autonomia dall’ambito giudiziario, si adopera affinché i partner elaborino in prima persona un programma di separazione soddisfacente per se e per i figli, in cui possano esercitare la comune responsabilità genitoriale.

 

Secondo il modello A.I.M.S. (mediazione sistemica) il Mediatore Familiare è un professionista qualificato a seguito di percorsi di formazione specifici che interviene, quale figura terza, nel percorso di aiuto alla famiglia prima, durante e dopo la separazione o il divorzio, in autonomia dall’ambiente giudiziario, per raggiungere accordi concreti e duraturi concernenti l’affidamento e l’educazione dei minori, nonché tutti gli elementi concernenti l’esercizio della potestà genitoriale e tutto ciò che concerne la divisione dei beni, l’assegno di mantenimento al coniuge debole o gli alimenti, la residenza principale dei figli e tutto quanto previsto dalla normativa vigente in tema di separazione e divorzio con esplicito riferimento all’attività negoziale.

 

In entrambi i modelli il contesto di mediazione è formato dalle parti e dal mediatore, senza l’assistenza e la copresenza degli avvocati ai quali le parti sono inviate nei momenti in cui sia opportuna una consulenza di carattere legale o sia necessario, al termine del percorso di mediazione, redigere un atto legale da presentare davanti all’autorità giudiziaria; il mediatore familiare si pone come terzo imparziale rispetto alle parti.

 

Molte persone, soprattutto all’inizio di una vicenda separativa, hanno bisogno di essere sostenute individualmente, hanno bisogno di sentire a fianco qualcuno che sia li solo per loro, cosa questa che la presenza di un avvocato per ciascuna parte nel team collaborativo garantisce a differenza del mediatore familiare che, al più, può essere presente e per l’uno e per l’altro.

 

Lo stesso Stu Webb, ideatore della Pratica Collaborativa, evidenziava come punto debole della mediazione familiare il fatto che il lavoro degli avvocati venga lasciato fuori da tale percorso ai suoi esordi; nel prefigurare la struttura del Diritto Collaborativo, Stu Webb intravedeva il suo punto di forza proprio nella maggior continuità tra l’accordo definito in sede collaborativa e l’accordo di cui verrà chiesta l’omologa.

 

Il team collaborativo, dunque, consente la contestualità dei diversi interventi (legale, psicologico ed economico) nella garanzia della condivisione degli obiettivi e dei metodi, la comunicazione fra i vari professionisti del team (che in tali termini è sempre esclusa fra mediatore familiare e gli avvocati esterni di ciascuna parte e anche con l’unico avvocato di entrambe) e l’assistenza legale individuale che non fa sentire solo il cliente.

 

La copresenza nel team collaborativo di elementi di “advocacy”, data dagli avvocati, e di “neutralità”, data dagli esperti imparziali garantisce un insieme armonioso dove la sicurezza di essere sostenuti costituisce la base per “esporsi” e per capire l’altro favorendo l’individuazione di una soluzione nell’interesse di tutti.

 

Nel team il ruolo dell’avvocato è molto diverso da quello che egli svolge in modo tradizionale e quindi anche a quello dell’avvocato che verifica un accordo raggiunto altrove e senza la sua assistenza, come avviene nel percorso di mediazione familiare italiana.

Tutto questo non toglie valore alla Mediazione Familiare che rimane una validissima opzione per alcune coppie, così come la Pratica Collaborativa lo è per altre.

 

Nel concludere questa breve presentazione della pratica collaborativa, ci piace riportare e ricordare queste parole di Ghandi: «Mi resi conto che la vera funzione dell'avvocato è di unire parti che si sono disunite; la lezione s'impresse così indelebilmente in me che occupai gran parte del tempo per ottenere compromessi privati in centinaia di casi. Non ci persi nulla, neppure denaro, certamente non l'anima. Io sono un avvocato. Ghandi».

 

Avv.to Lorenza Cracco         Avv.to Clarissa Fedrigoni

 

Articolo tratto dalla Relazione "La Pratica Collaborativa" redatta dall'avv. Carla Marcucci, Presidente dell'Associazione Italiana Professionisti Collaborativi, presentata al Consiglio Direttivo Nazionale dell'AIAF nel luglio 2013 e pubblicata nel sito AIADC, Associazione Italiana Professionisti Collaborativi

 

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