Il senso dell'educare

“Non c’è spazio nella scuola materna per il sentimentale, per l’impaziente, per l’insensibile o per chi si sente superiore.

Riservato a chi sa amare, dovrebbe dire il bando di concorso” (Winnicott, 1989)

 

L’adulto che si occupa del bambino, madre, padre, educatore, insegnante, dovrebbe essere un esperto di emozioni infantili, con una qualità necessaria ed indispensabile: la disponibilità emotiva accompagnata da una grande tolleranza, affetto e stabilità.

 

Essere empatici nel lavoro educativo e psicologico non significa fare le “mamme”, soddisfare i propri bisogni, i propri desideri, ma tendere contemporaneamente ad una vicinanza e a una separazione. Essere cioè capaci di intimità, ma non di confusione o fusione, essere capaci di riservatezza, discrezione in modo da riconoscere la giusta distanza, in modo da riconoscere l’altro nelle sue caratteristiche, nei suoi bisogni, nella sua complessità e potenzialità.

L’empatia consente e comprende la capacità di sorprendersi in quanto implica di per sé il riconoscimento dell’alterità, dell’irriducibilità dell’altro a noi, perfino quando lo percepiamo dentro di noi. Non tollerare la sorpresa può essere un modo per proteggersi dall’eventualità di traumi ma è anche un modo che fa andare incontro alla noia e al senso di inutilità per il lavoro che si sta svolgendo.

 

Occuparsi dei bambini è molto complesso e difficile, sempre alla ricerca di equilibrio tra la capacità di vedere e rispecchiare l’unicità di ognuno e nello stesso tempo facilitare e sostenere le relazioni tra i bambini favorendo il gioco e lo scambio di natura sociale.

Occorre quindi una mente adulta non troppo preoccupata ma nemmeno latitante, bensì viva, curiosa, attiva, pronta a cogliere ciò che non si è visto un attimo prima e in questo senso l’osservazione partecipe costituisce un prezioso allenamento.

 

Osservare significa fare spazio al bambino senza doverlo inserire in uno schema e senza perdersi in un sentimentalismo confusivo, acquisendo quindi la capacità di vedere un insieme, un tutto unitario, avendo interesse per una persona viva, non per i pezzi di essa.

Per inciso ci si riferisce ad una metodologia osservativa che trae origine dall’infant observation messa a punto nel 1948 presso la Tavistock Clinic di Londra da E.Bick ma che successivamente è stata adattata in asilo, in ospedale, in comunità per una maggiore comprensione delle esperienze infantili in tali contesti.

 

Quando si osserva un bambino ci si impegna ad essere ricettivi non solo rispetto a ciò che rientra nel contesto verbale e alla concreta visibilità di certi comportamenti o determinate azioni ma altresì si pone attenzione ai movimenti, ai toni di voce, agli sguardi, ai più impercettibili segnali comunicativi.

Oltre a prestare attenzione a quanto dicono e fanno i bambini, ci si impegna ad essere aperti a qualsiasi cosa avvenga in termini appunto di gesti, la postura, insomma tutto ciò che tende a scomparire se non si presta ascolto al messaggio analogico oltre che verbale prestando contemporaneamente attenzione al proprio sentire.

Per osservare e descrivere ci si deve astenere dal valutare/giudicare evitando di conseguenza di riportare situazioni ed eventi ricorrendo a criteri convenzionali di tipo valutativo.

L’osservazione non è dunque una tecnica ma è il risultato di un atteggiamento globale, integrale, è un processo che si muove nell’area della ricezione e dell’ascolto ma cresce poi nello spazio di condivisione costruito all’interno del gruppo di lavoro.

L’osservazione partecipe tende non ad accumulare dati ma a favorire la qualità del pensare; si struttura quindi come un movimento mentale alla ricerca di quella giusta distanza per vedere l’altro nella sua interezza sia di una giusta vicinanza per risuonare empaticamente nell’incontro con il bambino reale senza confonderlo con le proprie idee e conoscenze.

 
 
Dott.ssa Rossana Dalla Stella 
 
 

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